Anna Maria Bagnasco
Agente di viaggio e content creator
Anna Maria Bagnasco
Lo slancio della globalizzazione e della rivoluzione digitale, ci avevano abituati a un’apertura e a un avvicinamento che però hanno subito una battuta d’arresto negli ultimi anni. Oggi occorre rivedere il significato della parola identità, legata ai concetti di cittadinanza, alterità e inclusione.
Noi lo abbiamo fatto, cercando di focalizzarci sui trend del nostro Paese, attraverso le parole di Isabella Corvino, docente presso l’Università Sapienza di Roma e ricercatrice esperta nei processi migratori.
L’identità può essere definita come il risultato di un processo continuo di meccanismi che lavorano a livello psicologico, per restituire un’immagine coerente e propria di un gruppo sociale.
In realtà è difficile racchiudere l’essere umano in un’idea prestabilita di identità. Il contatto con l’altro ci spinge ad assimilare nuovi linguaggi, nuovi modi di percepire e di vivere in linea con una costante evoluzione, condizionata dai molteplici fattori esterni.
Cosa succede, però, quando siamo davanti a qualcuno di diverso da noi?
La prima reazione è mettersi sulla difensiva partendo dal presupposto che solo un modo di essere e di esprimere la propria identità possa essere corretto e degno di avere dei diritti.
In questo modo si pone di fatto un limite sul riconoscimento del prossimo dettato probabilmente da una radicata idea individualistica dell’uomo moderno: solo, indipendente, capace di superare ostacoli e limiti, ergendosi sugli altri.
I diversi approcci di vita individualistici si traducono in svariate identità possibili, rendendo però anche più difficile la ricerca di un’identità propria, che viene infine ricercata nel gruppo sociale e nel territorio in cui viviamo.
Alla ricerca di una propria identità e al riconoscimento dell’identità del prossimo si lega anche il tema, molto complesso e controverso, dello straniero.
Nella nostra società tendiamo a mostrare molta più diffidenza verso lo straniero e l’immigrato in difficoltà, povero e bisognoso di sostegno, mentre vediamo i nostri connazionali che espatriano all’estero per vivere e lavorare come pionieri e conquistatori.
Questo criterio è probabilmente mosso dalla politica stessa degli Stati che rispettano la volontà di emigrare, ma, allo stesso tempo, sono restrittivi sull’immigrazione entro i propri confini, arrivando anche a innescare nella popolazione locale un senso di violazione e di illegalità.
Senza il riconoscimento dello status di cittadino, l’individuo inserito in una determinata comunità sociale e territoriale resta uno “straniero” che partecipa attivamente alla vita sociale, osserva i suoi doveri, ma non gode di tutti i diritti, come ad esempio votare, essere eletto, uscire e rientrare nel paese liberamente.
L’appartenenza a un determinato territorio o comunità si identifica spesso con il concetto di cittadinanza, termine che specifica la connessione tra un individuo e lo Stato e, a livello giuridico, coincide con la totalità dei diritti civili, sociali e politici.
In realtà, pur essendo nata per abbattere le disuguaglianze tra cittadini nativi e stranieri, la cittadinanza segna delle differenze in termini di potere, legittimazione e ridistribuzione delle risorse.
L’assegnazione della cittadinanza avviene, infatti, secondo due criteri principali: la discendenza di sangue, ad esempio in Italia, o la nascita entro i confini dello Stato.
Ma questo sistema legislativo ammette una condotta pregiudizievole per cui chi non rientra in determinate categorie non possa appartenere alla collettività con cui vive e interagisce.
La difesa dei propri diritti prevede davvero l’eliminazione della diversità e il rifiuto di un’identità considerata estranea? Dobbiamo pensare alla mancanza di eterogeneità come un impoverimento culturale?
Superare l’alterità è possibile, ma bisogna prima di tutto abbandonare a livello umano queste percezioni negative e cercare di trovare un motivo di appartenenza che sia diverso dal riconoscimento dell’identità.
Per articolare processi sani di inclusione è necessario iniziare a parlare di integrazione come di una spinta attiva di fiducia, solidarietà e accoglienza.
Anche il significato di differenza deve essere rielaborato, perché non sia basato sulla disuguaglianza, bensì sia incentrato sul culto delle proprie particolarità e caratteristiche come visione di un’unicità speciale e proficua.
Il passo successivo è poi quello di favorire politiche di inclusione che semplifichino l’ingresso nel paese e nel mercato del lavoro e non permettano una svalutazione dello straniero come persona senza capacità e potenzialità, adatta solo a certi tipi di occupazioni ed etichettata solo dal possesso o meno della cittadinanza.