Anna Maria Bagnasco
Agente di viaggio e content creator
Anna Maria Bagnasco
Da sempre noi uomini ci interroghiamo sul significato della morte, in particolare su ciò che di noi rimane una volta passati a miglior vita. In questo particolare momento storico fatto di Internet, Social Media e Criptovalute si aggiunge un ulteriore aspetto collegato alla nostra dipartita: l’eredità digitale.
Sì, esatto! Eredità digitale: due termini apparentemente lontani, ma che sempre più vanno a intersecarsi.
Ogni giorno immettiamo nel web una quantità enorme di dati attraverso dispositivi tecnologici di varia natura. Email, chat, sottoscrizioni di servizi commerciali, sono tutti modi con cui forniamo i nostri dati a terzi. Un lascito in termini di dati digitali, individuali e sensibili che raggruppati prendono il nome di eredità digitale.
Per prima cosa bisogna pensare che il nostro patrimonio digitale è composto da una pluralità eterogenea di beni, i quali a loro volta hanno una modalità di successione e una valenza giuridica differenti, soprattutto se si tratta di beni con valore patrimoniale.
Ad esempio, i dispositivi fisici sono trasmissibili a terzi, ma il loro contenuto digitale può essere vincolato dall’uso di User ID e Password che devono essere resi noti per poterne consentire l’accesso.
Nel caso poi di contenuti digitali conservati su piattaforme, bisogna considerare una trasmissibilità in seguito alla morte condizionata da norme contrattuali specifiche e accettate al momento della sottoscrizione.
Attualmente manca una disciplina legislativa adeguata in materia digitale e gli istituti già presenti non sempre gestiscono questo aspetto in modo esaustivo e completo.
Dibattito delicato e aperto è quello tra le grandi piattaforme che detengono la maggior parte del nostro patrimonio digitale e i singoli stati nazionali in cui i loro servizi arrivano.
Stiamo parlando delle big tech come Google, Apple, Facebook che hanno la loro sede principale negli Stati Uniti e le cui condizioni d’utilizzo, che l’utente accetta per potersi iscrivere, seguono una legislazione straniera che non sempre tutela la volontà dei destinatari, o gli interessi degli eredi.
Determinate clausole contrattuali possono prevedere, al momento del decesso dell’utente, il proseguimento del rapporto, ma in forma limitata, oppure la chiusura dello stesso con conseguente accesso o cancellazione del contenuto digitale.
Il problema di queste soluzioni è che lasciano un ampio margine di genericità e impongono l’espediente del “prendere o lasciare” relativo a tutto il contenuto dell’account o servizio, così imponendo agli utenti una scelta difficile sia perché non è agevole separare un contenuto dal valore economico da uno dal valore unicamente affettivo, sia perché magari il fruitore vorrebbe tramandare agli eredi solo una parte dei propri dati personali e non tutti.
In Europa è stato fatto fortunatamente un passo avanti, cercando di regolamentare in modo più caratterizzato, il rapporto tra operatori digitali e consumatori.
Il Regolamento generale sulla protezione dei dati UE/2016/679, cosiddetto GDPR, non contiene, in realtà, norme specifiche e ha lasciato agli Stati membri la possibilità di predisporre la specifica materia dell’eredità digitale.
Lo Stato Italiano ha concretamente impiegato tale facoltà per introdurre nel D.LGS. 196/2003, l’art. 2 terdecies (Diritti riguardanti le persone decedute).
La legge italiana prevede, così, che l’erede o il familiare possano esercitare sia il diritto di accesso, sia quello di cancellazione o oblio, previsti dal GDPR in merito ai dati personali del defunto, salvo che quest’ultimo non lo abbia esplicitamente negato con opportuna notificazione rilasciata in vita.
Nonostante il tema dell’eredità digitale sia ancora da sviscerare in tutta la sua complessità, non si può dire quindi che l’Italia sia rimasta immobile a guardare.
Dal 2007 il Consiglio Nazionale del Notariato si occupa del tema pubblicando studi e anche un decalogo di consigli utili per chi non è specialista in materia. Nel 2021 inoltre il Tribunale civile di Milano ha emesso una sentenza storica per Apple ha dovuto concedere ai genitori di un ragazzo agrigentino, morto in un incidente, l’accesso al contenuto digitale dell’account del figlio.
Questo è stato possibile perché il giudice ha ritenuto che il legame dei genitori e la loro volontà di mantenere viva la memoria del figlio fossero fattori sufficienti per dimostrare un legittimo interesse, prevalendo sulla reclamata tutela dei clienti da parte di Apple.
Il provvedimento pone un solido precedente su cui il sistema giuridico italiano può lavorare per garantire una corretta interpretazione di eredità digitale.
Un approfondimento a parte meriterebbe il caso delle criptovalute, che sono attualmente il vero valore economico di un patrimonio digitale.
La criptovaluta, il cui esempio più significativo è la Bitcoin, è un tipo di moneta digitale veicolata attraverso l’uso di una chiave crittografica e della blockchain, con un controvalore garantito da un soggetto terzo, ma fuori dai sistemi bancari e governativi tradizionali.
Se la blockchain è custodita da una banca o altri intermediari detti exchange, l’accesso post mortem al patrimonio ereditario può avvenire in forza delle norme del Codice civile che regolano la successione, combinate con le regole disposte dal Regolamento UE 679/2016 sul trattamento dei dati personali, l’art. 2 terdecies del D.lgs. 196/2003, il contratto con il fornitore del servizio.
Ma se la criptovaluta è detenuta direttamente dall’utente possono sorgere problemi nel recuperare la chiave crittografica privata che può essere conservata su un foglio di carta stampata, “paper wallet”, su applicazioni accessibili attraverso password, “software wallet”, o su dispositivi fisici idonei, “hardware wallet”.
Da queste premesse si può capire come queste valute virtuali presentino delle peculiarità e delle limitazioni che le rendono di difficile gestione in tema successorio.
Cercando di analizzare a fondo l’essenza dell’eredità digitale è innegabile che il problema sulla sua trattazione si sviluppi ben prima, quando il nostro patrimonio digitale si sta ancora formando attraverso le nostre attività online.
Diventa necessario conoscere diritti e responsabilità verso tutti i dati che immettiamo nel web ogni giorno, spesso in modo ingenuo. Valutare le numerose tracce che ci lasciamo dietro e che, anche mentre siamo in vita, non devono essere disperse.
Questo significa definire la nostra identità digitale, organizzarla e preservarla con il fine di poter esercitare i nostri diritti su quello che abbiamo detto essere un alter ego mutevole ma con una propria consistenza.
La soluzione migliore sembra dunque quella di correre ai ripari e pensare per tempo a quale fine destinare in nostro patrimonio di dati.
I metodi, anche se devono essere ponderati secondo le necessità, sono diversi:
Come sempre, quando si parla di tecnologie e del loro sviluppo, è difficile immaginare cosa accadrà in futuro, perché i progressi sono tanti, imprevedibili e sollecitati anche dagli avvenimenti circostanti, vedi l’attuale pandemia.
È evidente come l’aspetto ereditario dei nostri dati digitali non possa più essere rinviato o disciplinato dalla scelta caso per caso da parte del giudice, che in Tribunale deve destreggiarsi tra diritti di accesso al patrimonio degli eredi e diritti di riservatezza del defunto.
È, altresì, importante che i colossi del web perfezionino il loro rapporto con i consumatori assicurando una libera espressione di intenti che non sia ridotta a un mero consenso di contratti impossibili da leggere e comprendere.
I punti chiave per garantire una corretta eredità digitale sono la realizzazione di una normativa giuridica ad hoc e la creazione di procedimenti che consentano agli utenti di esprimere, in maniera semplice, automatica e rispetto a ogni singolo file, le proprie preferenze di conservazione o oblio.
Solo così potremo essere sicuri di poter riprendere il controllo sulla nostra vita digitale.