Quando si invia una candidatura spesso si incontrano degli scogli già nei primi step del processo.
Non ricevere una risposta o essere scartati ancora prima del colloquio sono motivi di disorientamento, soprattutto per i profili junior.
Durante la ricerca del lavoro il primo ostacolo da superare è il famigerato screening dei CV, spesso svolto anche per mezzo di sistemi automatici o intelligenze artificiali.
Questa fase, sicuramente necessaria da un punto di vista pratico, ha anche dei limiti. Infatti l’unico modo per scremare i candidati è verificare la corrispondenza tra le competenze del candidato (o almeno quelle riportate nel CV) e quelle richieste dalla posizione.
Anche quest’ultimo è un punto da non sottovalutare: non sempre è chiara l’efficacia di un curriculum che presenti in modo creativo la propria persona. Anzi a volte il rischio è quello di “sottovalutarsi” e non riuscire a mettere in luce i propri punti di forza nel CV.
È proprio questa la grande sfida del mondo delle risorse umane: trovare modalità di selezione che possano valorizzare il fattore umano e l’unicità dei candidati, all’interno di processi di recruiting che siano comunque sostenibili in termini di tempo e costi.
Bisogna considerare però che la selezione non è l’unico settore in cui mettere in atto una riflessione sul fattore umano che può – o meglio dovrebbe – partire da molto prima.
In tutte le azioni con cui le aziende si presentano al mercato, nelle strategie di employer branding si può raccontare tantissimo dei valori distintivi di un’organizzazione. Anzi sono proprio questi il vero asso nella manica per attrarre i migliori talenti.
Da qui in poi si può innescare un circolo virtuoso, nel momento in cui la valorizzazione del fattore umano non è solo un contenuto da comunicare, ma diventa parte integrante della cultura di un’azienda, le risorse saranno soddisfatte del proprio lavoro e fidelizzate nei confronti dell’azienda stessa.
Sono proprio le generazioni più giovani che, cominciando ad entrare nel mondo del lavoro, mettono in luce che un “buon lavoro” è tale perché dà possibilità di crescere professionalmente, esprimersi e mettere in campo le proprie attitudini.
È un cambiamento di prospettiva e mindset che comincia ad essere richiesto a gran voce. Ma quanta strada hanno ancora da fare le aziende prima di riuscire a mettere al primo posto il fattore umano?