Risorse Umane

Sei abbastanza trasversale per la cultura del futuro?

Giulia D'Innocenti

Ti incuriosisci di un ambito, cominci ad approfondirlo, poi a studiarlo fino a specializzarti sempre di più. È un po’ il percorso di ognuno di noi, ma poi? Come è possibile trasformare i nostri interessi, gli anni che abbiamo investito nello studio in un percorso di carriera?

Lo abbiamo chiesto a Guido Capobianco, Direttore didattico della ISTUM Business School ed esperto di ricerca, sviluppo, selezione e outplacement del personale.

Forse dobbiamo partire proprio chiedendoci quale siano le skills che ognuno di noi deve formare in un mercato del lavoro che corre continuamente.

Per rispondere a questa domanda c’è da considerare un pre ed un post pandemia. Le aziende, ma soprattutto i candidati, infatti hanno rivisto le priorità. 

Non è detto che un lavoro venga accettato a prescindere, quello che sta prendendo il primo posto è la coerenza tra valori del candidato e codice etico aziendale e tra caratteristiche del lavoro ed aspettative delle persone.

Non esiste più un lavoro ad ogni costo. Questo perché l’ansia di trovare una nuova occupazione sta perdendo punti nella scala delle priorità.

Anche le modalità del lavoro giocano un ruolo importante?

Il consolidamento dello smart working ha messo in evidenza come certe competenze siano indispensabili per adattarsi ad una cultura che sta cambiando.

Tra queste troviamo ovviamente la gestione dei tempi, la comunicazione efficace, la capacità di lavorare per obiettivi, il team working. Ma più di tutte la trasversalità: in ambito tecnico (banalmente tutti noi abbiamo necessità di possedere delle competenze digitali oltre a specifiche skills tecniche) ma soprattutto in ambito attitudinale.

Il punto però è che questa cultura prevale soprattutto nelle grandi aziende, meno nelle PMI che, in molti casi, stanno tornando “al passato”, investendo molto sulla presenza fisica piuttosto che sull’agilità del lavoro. 

Questo avviene soprattutto in quei contesti con meno di dieci dipendenti, all’interno dei quali è ancora presto per parlare di cambiamento e di soft skills innovative.

Ma anche le PMI potrebbero vivere, nel tempo, l’effetto domino del cambiamento di valori dei candidati. Ad esempio se in altri contesti si sono sperimentati i vantaggi dello smart working, un’azienda che non lo offre potrebbe essere scartata dal range di scelta per una nuova occupazione.

Abbiamo capito che è fondamentale formarsi, ma la formazione richiede un investimento di tempo per consolidare le conoscenze. Questo processo come viene vissuto dalle aziende?

Alcune aziende hanno la formazione come core business, ritengono che ci siano tante strade per raggiungere uno stesso risultato e quindi puntano all’autonomia delle risorse.

È proprio ciò di cui abbiamo più bisogno: una formazione tecnico-attitudinale che insegni come performare al meglio (tra negoziazione, comunicazione, gestione dei tempi e così via). 

Questa tipologia di formazione manca nelle università, quindi sono le aziende a doversi far carico di queste lacune nelle fasi di onboarding delle risorse.

Ma quante aziende, soprattutto tra le PMI, dedicano questo tempo nella fase di ingresso delle nuove risorse? Quando lo fanno, quante dedicano spazio anche agli elementi attitudinali? In molte, purtroppo, possiamo trovare più un “addestramento” iniziale piuttosto che una formazione alla trasversalità e all’autonomia.

Allo stesso modo servono dei momenti di orientamento a partire dai contesti universitari, perché la stessa ricerca del lavoro è una skill da coltivare. Insieme a tutte le sue componenti: un utilizzo efficace e consapevole dei social network, lo storytelling e il personal branding.

In questo scenario di disallineamento tra varie tipologie di aziende, quanto di quello che stiamo facendo porterà ad un vero e proprio cambiamento culturale che si rispecchi in un’occupazione orientata alla diversità e al rispetto?

Per provare a rispondere dovremmo chiederci, quanto tempo ci vuole per cambiare una cultura? Forse anche una pandemia non basta!

Questo perché spesso il cambiamento viene visto come un ostacolo, un costo.

Basta solo pensare che ci sono ancora ambiti nei quali le aziende conducono la selezione del personale esclusivamente tramite passaparola.

Le aziende già avviate raggiungeranno il cambiamento in breve tempo, godendone i benefici e reinvestendo le risorse risparmiate in formazione. Ma tutto questo possono e soprattutto vogliono farlo anche le PMI?

Forse no, o almeno non nel breve termine e soprattutto senza un intervento istituzionale.

In fin dei conti la pandemia ha fatto riflettere molto più il singolo che i soggetti giuridici o le aziende stesse. Questa ritrovata consapevolezza delle persone potrebbe generare una vera e propria lotta per il miglior talento, sempre più riflessivo nella scelta del contesto lavorativo.

Probabilmente, se questo diventerà un dato di fatto, allora tutte le aziende arriveranno ad un reale cambio di approccio.

Quello che rimane sicuramente più chiaro è che un cambiamento culturale è un processo graduale e assolutamente complesso, che non equivale banalmente al cambiamento di una somma di abitudini, ma deve essere generato da una consapevolezza diffusa dei traguardi che si vogliono raggiungere e soprattutto delle modalità per raggiungerlo!

Giulia D'Innocenti

Content Creator

Il mio percorso professionale mi ha portato a spaziare dalla psicologia all’ambito della comunicazione e del marketing, passando per il mondo delle risorse umane, specialmente nei settori del recruiting e dell’employer branding. Sono appassionata del mondo digitale e di tutte le sue applicazioni, soprattutto le più innovative. Mi occupo della creazione di contenuti per la comunicazione social e di copywriting per contenuti di blog.

0 0 37

Inserisci un commento